Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale <p><strong>Novecento Transnazionale. Letterature, arti e culture</strong> è una rivista accademica di respiro internazionale. Pubblica un volume all'anno (con al massimo 2 fascicoli e numerazione continua), in versione elettronica ad accesso aperto, è sottoposta a <em>single blind peer-review</em>. Sono graditi contributi di ambito comparatistico letterario, storico artistico e antropologico culturale.<br /><strong>Transnational 20th Century. Literatures, Arts and Cultures</strong> is an international academic journal. It is published a volume yearly (up to a maximum of two issues per year and with continuous numbering), open-access and uses single-blind review. Comparative literature, art history and cultural anthropology articles are welcome.</p> <h3>open access-BOAI, DoAJ, ANVUR-area 10</h3> SBS - Sistema Bibliotecario Sapienza it-IT Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture 2532-1994 <p><a href="http://creativecommons.org/licenses/by/3.0/" rel="license"><img src="http://i.creativecommons.org/l/by/3.0/88x31.png" alt="Creative Commons License" /></a><br />Except where otherwise noted, the content of this site is licensed under a <a href="http://creativecommons.org/licenses/by/3.0/" rel="license">Creative Commons Attribution 3.0 Unported License</a>.</p><div class="separator"> </div> Scorciatoie, piaghe e ferite aperte: Autonomia delle forme di conoscenza in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18476 <p>Negli ultimi decenni, il romanzo <em>Tempo di uccidere</em> di Ennio Flaiano, pubblicato nel 1947, ha acquisito lo status di testo fondante per il discorso postcoloniale in Italia. Alieno alle estetiche neorealiste che hanno caratterizzato l’inizio del secondo dopoguerra, <em>Tempo di uccidere</em> si contraddistingue inoltre per la complessa e stratificata esposizione della violenza perpetrata dagli italiani durante la seconda guerra Italo-Etiopica, a cominciare dalla violenza di genere. Il romanzo scopre gli scheletri nei tanti armadi italiani mentre si stabilizzava una memoria collettiva assolutoria riguardo l’esteso consenso verso il fascismo.</p> <p>Con <em>Tempo di uccidere </em>Flaiano pone domande fondamentali sulle responsabilità individuali e collettive di fronte alle politiche del regime. Per il protagonista-narratore, e così anche per il lettore italiano del tempo, il passo più difficile è il pieno riconoscimento dell’autonomia dello sguardo e delle forme di conoscenza delle vittime coloniali, irriducibili al discorso coloniale. Concentrandosi sull’ambiguità di immagini quali le “scorciatoie” e le “piaghe”, che ritornano ossessivamente nel romanzo, Flaiano illumina come le ferite aperte dal fascismo e dal colonialismo sarebbero sopravvissute nella memoria privata e pubblica nonostante la rimozione nel discorso pubblico del dopoguerra. Letto insieme alle recensioni del tempo, il romanzo mostra quanto fosse problematica una radicale revisione delle pratiche imperialiste e dell’immaginario esotista che aveva connotato la moderna cultura nazionale in Italia – pratiche e immaginario che sarebbero sopravvissuti ben oltre la caduta dell’ultra-nazionalismo del regime di Mussolini.</p> Franco Baldasso Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 115 129 10.13133/2532-1994/18476 I ricami di Herta Ottolenghi Wedekind zur Horst: mezzo di liberazione da una “prigione” https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18641 <p>Questo articolo presenta un'artista tedesca totalmente riscoperta e mai indagata dalla critica e dalla storiografia: Herta Ottolenghi Wedekind zur Horst. Si sofferma poi sulla sua concezione dell'arte come liberazione da una prigione, da una condizione di malessere che può essere definita traumatica. Come racconta la stessa Wedekind nelle sue liriche, l'arte può essere quel <em>raggio di sole</em> che improvvisamente abbaglia e risveglia nuove energie. La discussione getta una luce specifica su come l'arte diventi una sorta di rifugio, un profondo esercizio di meditazione dell'anima, un momento di profonda solitudine finalizzato al raggiungimento di una nuova consapevolezza.</p> Diletta Haberl Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 130 148 10.13133/2532-1994/18641 Sulle orme della “necropolitica” di Mbembe https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18431 <p>L’Archivio Diaristico Nazionale (ADN) di Pieve Santo Stefano raccoglie scritti autobiografici e diaristici di gente comune, in cui si riflette, tramite varie forme, la storia d’Italia. All’opera di conservazione delle memorie si sono affiancate varie iniziative, tra cui il progetto DiMMi (Diari Multimediali Migranti) che dal 2012 raccoglie scritture migranti promuovendo un dialogo interculturale. Un numero significativo di testimonianze si concentra sulla rotta del Mediterraneo centrale, che parte dai Paesi sub-sahariani per arrivare in Europa passando attraverso il deserto del Sahara e la Libia: la cosiddetta Back way, l’“uscita dal retro”. Questo articolo, attraverso i diari scritti in prima persona dai migranti conservati presso l’ADN di Pieve Santo Stefano, esplora le similitudini tra il Sahara e il Mediterraneo ‒ come il secondo sia il corrispettivo liquido del primo ‒ evidenziando come le traversate di questi due spazi nascondano insidie e pericoli molto simili tra loro.</p> Ilaria Rosati Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 149 166 10.13133/2532-1994/18431 "And what sort of “obscenity” is the Arts Council prepared to defend? https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18710 <p>Nel 1974 Suzanne Santoro (New York 1946), artista americana residente a Roma, pubblica con Scritti di Rivolta Femminile <em>Per una nuova espressione /Towards New Expression</em>. Nel piccolo libro, accompagnato da un breve testo introduttivo, l'autrice isola e accosta immagini e dettagli anatomici del sesso femminile alla statuaria antica. Due anni dopo, nel 1976, un atto di censura fu compiuto dall'Arts Council of Great Britain nell'ambito della mostra <em>Artist's Book</em> all'ICA di Londra, dove il libro di Suzanne Santoro fu incluso nel catalogo, ma escluso dalla mostra. La piccola pubblicazione, interpretata come pornografica, è stata censurata da un'interpretazione lontana dalle intenzioni dell'artista, il cui scopo era far riemergere un'iconografia soppressa nel corso della storia. Questo saggio si propone di esplorare il tema della censura delle immagini e della rappresentazione artistica da una prospettiva transnazionale, a partire dal caso esemplare della ricezione e della circolazione di questo libro d'artista. Il contesto italiano sarà inoltre confrontato con quello anglosassone e con le posizioni di figure chiave della critica d'arte come Rozsika Parker sulle pagine della rivista attivista <em>Spare Ribs</em> e altre come Annemarie Sauzeau Boetti. Con la sua pubblicazione Suzanne Santoro propone e abbraccia un linguaggio polisemico e assolutamente originale, così radicale da diventare esso stesso una definizione della soggettività femminile e una nuova espressione.</p> Maria Alicata Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 1 11 10.13133/2532-1994/18710 Traduzione e autocensura fra il Buovo d’Antona veneziano e il Bovo-Bukh di Elia Levita https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18623 <p>Con la conclusione del Concilio di Basilea nel 1449 si compie la trasformazione del papato in uno Stato assoluto in grado d’inserirsi nel gioco delle potenze italiane. Ne deriva che Venezia, timorosa dell’espansione ottomana e preoccupata di por fine alle lotte del secolo precedente, adotterà una posizione coerente con l’ortodossia cattolica. Ciò diverrà ancora più impellente con l’ampliamento del pubblico di lettori susseguente all’introduzione della stampa.</p> <p>Un esempio di autocensura preventiva è riscontrabile negli incunaboli che, per tutti gli anni Ottanta del XV secolo, apparvero fra Venezia e Bologna riportando l’adattamento di un antico poema cavalleresco di origini normanne: <em>Buovo d’Antona.</em> La narrazione vi è interpolata da invocazioni estemporanee di chiaro carattere confessionale, intese forse a prevenire le accuse di licenziosità della materia trattata.</p> <p>Nel momento in cui, intorno al 1507, il filologo Elia Levita intraprende la traduzione del testo in yiddish-taytsh, per poi pubblicarla a stampa a Isny 34 anni dopo, egli si vede costretto ad eliminare od adattare tali passi per rendere la sua opera accettabile a un pubblico israelita.</p> <p>Scopo dell’articolo è paragonare il <em>Buovo d’Antona</em> veneziano con il <em>Bovo-Bukh</em> di Levita per individuarvi i riferimenti intertestuali di più chiaro carattere confessionale, che possono essere intesi quali forme di autocensura preventiva.</p> Davide Artico Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 12 27 10.13133/2532-1994/18623 Caricatura come censura: incroyables e merveilleuses tra stereotipi, costume e controllo sociale https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18477 <p class="p1">L’attenzione della storiografia e della sociologia sulla censura del costume si è prevalentemente concentrata sull’età contemporanea, dove la valenza politica dell’abito è emersa in riferimento ai regimi autoritari e totalitari. Minore è stata l’attenzione per le implicazioni simboliche e politiche dell’abito nell’età moderna, eppure la Rivoluzione francese ha evidenziato una regolamentazione dell’uso dell’abito quale strumento di espressione di un simbolismo e di un immaginario repubblicano che la classe dirigente intendeva radicare nella popolazione. Nel periodo direttoriale emerge in questo senso una tensione tra tre poli: la volontà di confermare l’abbandono del formalismo cetuale e l’immaginario dell’antico regime, la necessità di imporre un costume che rispecchiasse i nuovi valori, la volontà di lasciare un margine di libera espressione agli individui così da compensare l’integralismo giacobino. Un caso di studio idoneo per indagare questa triangolazione appare la vicenda degli <em>incroyables</em> e delle <em>merveilleuses</em>, membri della “gioventù termidoriana” con i quali il Direttorio costruì un rapporto ambivalente di apparente accettazione e sorveglianza, da un lato, e di pubblica marginalizzazione nel segno della derisione, dall’altro. L’analisi imagologica di alcuni esiti della cultura visuale francese e inglese, come le caricature, fa emergere una pratica di censura sfaccettata e funzionale a un potere disciplinare.<span class="Apple-converted-space">&nbsp;</span></p> Ambrogia Cereda Filippo Gorla Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 28 49 10.13133/2532-1994/18477 La caccia alle streghe: (auto)censura nel secondo Novecento croato https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18484 <p>La letteratura è tradizionalmente considerata uno degli elementi fondamentali sia nella costruzione che nella conservazione dell’identità nazionale e lo scrittore come “profeta”, nella veste di poeta vate, è il portavoce di tale identità. Trattare le letterature nazionali sorte con la dissoluzione della Jugoslavia, in tal senso, presenta qualche criticità che riguarda particolarmente la categoria di scrittore, legato a doppio filo alle esplicite richieste ideologiche e nazionaliste promosse dallo Stato.</p> <p>Negli anni Novanta del Novecento, la stampa croata promuoveva politiche di unità nazionale, auspicando che anche gli intellettuali le condividessero e che, invece, venivano contestate aspramente, soprattutto da alcuni personaggi di spicco. Il presente saggio vuole indagare come l’articolo di Slaven Letica, noto pubblicista croato, intitolato <em>Hrvatske feministice siluju Hrvatsku</em>! e pubblicato su una delle principali testate del tempo, abbia portato cinque scrittrici e giornaliste affermate jugoslave, conosciute come “Le streghe di Rio”, ad autocensurarsi e a scegliere la via dell’esilio. Tale articolo è infatti passato alla storia come il testo più controverso del giornalismo croato. Da queste posizioni ci si intende concentrare, nello specifico, sul caso dell’autrice Dubravka Ugrešić (1949-2023), una delle voci più autorevoli e profonde, riconosciuta tale nel panorama letterario europeo ed intellettuale.</p> Iva Colak Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 50 61 10.13133/2532-1994/18484 Censura fascista e autocensura nei libri gialli degli anni Trenta https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18485 <p>Si intende ricostruire l’enorme circolazione in Italia di libri gialli in traduzione durante il fascismo (1922-1943), spiegando come essi furono colpiti dalla censura letteraria, sia da un punto di vista linguistico che contenutistico. L’ analisi verterà sulle traduzioni di alcuni dei romanzi polizieschi più famosi della “regina del crimine” Agatha Christie, tradotti in italiano per la prima volta negli anni Trenta dalla casa editrice Mondadori che, in quegli stessi anni, stava riscuotendo un enorme successo, grazie alla popolarità di un’intera collana poliziesca denominata “Libri gialli” pubblicata dal 1929 al 1941, fino a quando il Ministero della Cultura Popolare ne vietò la vendita per “motivi morali”. L'analisi evidenzierà come sia la censura fascista sia le ragioni editoriali abbiano causato una rilevante manipolazione dei contenuti nella traduzione dei libri gialli, proponendo versioni infedeli rispetto al testo di partenza, in cui le digressioni, le descrizioni secondarie o le sottotrame erano spesso tagliate, insieme ai passaggi ritenuti pericolosi moralmente o politicamente. Potrà stupire, tuttavia, che fino all'inizio degli anni Ottanta era ancora possibile acquistare queste versioni in libreria, sostituite solo in seguito da nuove traduzioni fedeli ai testi originali. Esse, tuttavia, possono essere ancora facilmente reperite e lette nelle biblioteche.</p> Antonella Di Spalatro Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 62 80 10.13133/2532-1994/18485 La censura di bronzo. I monumenti confederati e la contro narrativa degli artisti afro americani tra iconoclastia e nuova figurazione https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18509 <p class="p1"><span class="s1">La storia della guerra civile americana, rappresenta per gli Stati Uniti un elemento altamente simbolico e identitario e allo stesso tempo altamente escludente attraverso il quale è stata negata alla comunità nera ogni possibilità di contro discorso narrativo e visuale. Nel corso degli ultimi dieci anni, in corrispondenza a tragici eventi come il massacro di Charleston e l’uccisione di George Floyd è stato avviato un processo di rilettura storica che ha permesso, in maniera sempre più chiara ed evidente, di portare alla luce la falsa mitologia, il cosiddetto mito della causa persa, che ha sostenuto la costruzione di una pseudo narrazione storica tesa a giustificare e legittimare il razzismo endemico in particolare negli Stati del Sud. In questo processo il simbolo confederato, inteso, dai monumenti alle lapidi, dalla celebrazioni di determinate festività all’intitolazione di strade e scuole, ha assunto un ruolo essenziale nella costruzione di un determinato immaginario collettivo. In particolare le statue confederate non hanno mai rappresentato un ricordo storico bensì hanno indirizzato un pensiero politico suprematista che ha mostrato le sue recrudescenze mai sopite in maniera sempre più forte proprio in questi ultimi anni. Partendo dunque da una volontà di affermazione della presenza nera all’interno dello spazio politico, sociale e pubblico statunitense si sono sviluppati due approcci e letture apparentemente contrastanti. Da una parte si è affermato una volontà di recupero e risematizzazione simbolica attraverso l’intervento di artisti come Kehinde Wiley e Hank Willis Thomas che hanno reimmaginato il simbolo confederato attraverso il suo capovolgimento. Dall’altra, in particolare attraverso il pensiero afro pessimista, si è articolata la necessità di negare simboli e icone, anche della stessa cultura nera, come unico mezzo per evitare una cooptazione visiva e sociale e il conseguente rischio di una nuova perdita identitaria. Il testo pertanto, volendo complessificare il concetto di distruzione/creazione attorno alla recente spinta iconoclasta che ha visto la rimozione di diversi monumenti confederati a seguito dell’uccisione di George Floyd, si propone di analizzare il bilanciamento creativo insisto tra iconoclastia e contro narrazione figurativa cercando di uscire da un serie di categorie dicotomiche difficilmente applicabile al magmatico contesto statunitense.</span></p> Emanuele Rinaldo Meschini Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 81 97 10.13133/2532-1994/18509 Censura e libertà: la voce di Edward Morgan Forster. https://rosa.uniroma1.it/rosa03/novecento_transnazionale/article/view/18478 <p>Alle soglie del secondo conflitto mondiale, E. M. Forster registra nei suoi saggi le incertezze di una civiltà in mutamento e affida allo scrittore il compito di ricomporne i pezzi dopo la crisi, una funzione possibile se alla creazione letteraria è garantito un contesto di libertà.</p> <p>Il contributo si propone di ricostruire la riflessione di Forster sui temi della libertà di espressione e della censura, attraverso l’analisi dei discorsi, dei saggi e degli interventi radiofonici degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, in parte confluiti nel volume <em>Two Cheers for Democracy</em>. La silloge si inserisce nel quadro dell’impegno dell’autore in difesa dei valori liberali: dalla presidenza del National Council for Civil Liberties, alle campagne contro la censura di <em>Well of Loneliness,</em> <em>Boy </em>e <em>Lady Chatterley’s Lover </em>[Furbank], all’elogio dell’<em>Aeropagitica</em> di Milton.</p> <p>Nel 1935 le parole di Forster “I do believe in liberty” risuonavano nella sala del Congrès international des écrivains pour la défense de la culture, in un discorso sul legame tra la libertà di parola e la tradizione culturale inglese, da difendere dalle insidie dei totalitarismi europei. E non è un caso che, come esempio della letteratura dei Paesi rimasti liberi, il saggio forsteriano <em>The New Disorder</em> (1941) sia tradotto sul periodico <em>Il Mese</em> (1943) tra le pagine di autori ancora ignoti in Italia o, se noti, banditi dalla censura fascista: solo l’armonia dell’arte – conclude Forster – è rimedio al disordine della realtà contemporanea.</p> Laura Chiara Spinelli Copyright (c) 2024 Novecento transnazionale. Letterature, arti e culture https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/ 2024-04-15 2024-04-15 8 98 114 10.13133/2532-1994/18478