Geografia del calcio
DOI:
https://doi.org/10.13133/1125-5218.15334Abstract
««E sono certo che un viaggio dell’intelligenza nei dintorni del calcio risulteràpiacevole. Sempre che non ci venga l’intenzione di comprenderlo fino in fondo come Alcides Antuña Cavallero […]. Indignato per ciò che il calcio provocava nel mondo intero, il poveretto pretese di capirlo.
Vide la stessa passione negli stadi di tutto il mondo. “È un fenomeno universale” si disse. In un parco del Camerun vide un padre giocare con
suo figlio. “Contribuisce al dialogo tra generazioni” si disse. A Rio de
Janeiro vide un negro uscire da una favela e un bianco dal suo appartamento per giocare la stessa partita sulla spiaggia di Copacabana. “È un rito di pacificazione sociale” si disse. A Monaco vide giocare con efficacia teutonica e a Siviglia verificò che anche allo stadio la gente voleva
atteggiarsi ad artista. “È un’espressione culturale come tutte le altre” si
disse. Vide due tifosi discutere di calcio, poi quattro, e poi dieci all’angolo
di una strada di Riyadh. “È un mezzo di comunicazione” si disse. Vide una pietra schiantarsi contro la testa di un arbitro a Hong Kong. “È una valvola di sfogo” si disse. Vide gli operai spendere energie dietro al pallone in un sobborgo di Buenos Aires. “È una forma di distrazione” si disse. Il calcio provocava più cose di quanto avesse immaginato, ma lui non riusciva a capire il perché e cominciava a spazientirsi. Teneva lo sguardo inchiodato sul mappamondo di suo figlio maggiore come se quel pallone pieno di paesi fosse la sintesi della sua ricerca» (Jorge Valdano, in AA.VV., 2002, pp. 5-6).
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