Evoluzione politica, nomadismo e contraddizioni dello sviluppo in Mongolia

Authors

  • Maurizio Scaini

DOI:

https://doi.org/10.13133/1125-5218.15346

Abstract

La difficoltà di comprensione di civiltà lontane è sintetizzata dal numero
di metafore elaborate da quanti si sono cimentati nell’argomento.
La metafora, come noto, è un’immagine volutamente incompleta ed evocativa. Quando riesce, però, ha il pregio di sintetizzare i luoghi comuni
che condizionano le conclusioni dell’osservatore esterno e i problemi ancora da risolvere.
Se poniamo la nostra attenzione al territorio che convenzionalmente
definiamo con il termine di Asia centrale, una delle metafore più  suggestive è quella che lo paragona a un Oceano costituito da pianure, intervallate da rilievi ondulati, che si estende dalle foreste siberiane del nord est fino alla puzda ungherese e le cui onde sono stati i popoli che si sono susseguiti nei secoli. I confini simbolici di questo insieme possono essere naturali, come l’Himalaya o il Mar Caspio, o artificiali, come la
Grande Muraglia. La loro costruzione, la perdita repentina di significato
simbolico e il loro superamento, indicano bene la spinta propulsiva delle
civiltà interessate, il livello tecnologico a disposizione in un determinato
momento storico e le vicissitudini politiche intervenute. Generalmente, chi studia l’Asia Centrale segue due vie: o si concentra su un gruppo etnico preminente (gli Unni, i Mongoli, i Turchi), e lo segue attraverso i suoi  spostamenti, magari allargando l’attenzione a gran parte dell’Eurasia, come nel caso dei Turchi, oppure si dedica a una regione considerando le popolazioni che vi hanno vissuto. In ambedue i casi è necessario considerare gli stereotipi presenti nel racconto metaforico di riferimento che inevitabilmente alterano la realtà e riducono le possibilità interpretative di chi studia.