Scorciatoie, piaghe e ferite aperte: Autonomia delle forme di conoscenza in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano
DOI:
https://doi.org/10.13133/2532-1994/18476Abstract
Negli ultimi decenni, il romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, pubblicato nel 1947, ha acquisito lo status di testo fondante per il discorso postcoloniale in Italia. Alieno alle estetiche neorealiste che hanno caratterizzato l’inizio del secondo dopoguerra, Tempo di uccidere si contraddistingue inoltre per la complessa e stratificata esposizione della violenza perpetrata dagli italiani durante la seconda guerra Italo-Etiopica, a cominciare dalla violenza di genere. Il romanzo scopre gli scheletri nei tanti armadi italiani mentre si stabilizzava una memoria collettiva assolutoria riguardo l’esteso consenso verso il fascismo.
Con Tempo di uccidere Flaiano pone domande fondamentali sulle responsabilità individuali e collettive di fronte alle politiche del regime. Per il protagonista-narratore, e così anche per il lettore italiano del tempo, il passo più difficile è il pieno riconoscimento dell’autonomia dello sguardo e delle forme di conoscenza delle vittime coloniali, irriducibili al discorso coloniale. Concentrandosi sull’ambiguità di immagini quali le “scorciatoie” e le “piaghe”, che ritornano ossessivamente nel romanzo, Flaiano illumina come le ferite aperte dal fascismo e dal colonialismo sarebbero sopravvissute nella memoria privata e pubblica nonostante la rimozione nel discorso pubblico del dopoguerra. Letto insieme alle recensioni del tempo, il romanzo mostra quanto fosse problematica una radicale revisione delle pratiche imperialiste e dell’immaginario esotista che aveva connotato la moderna cultura nazionale in Italia – pratiche e immaginario che sarebbero sopravvissuti ben oltre la caduta dell’ultra-nazionalismo del regime di Mussolini.
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