Traduzione e autocensura fra il Buovo d’Antona veneziano e il Bovo-Bukh di Elia Levita
DOI:
https://doi.org/10.13133/2532-1994/18623Parole chiave:
Buovo d’Antona, Bovo-Bukh, Elia Levita, Old Yiddish literature, self-censorshipAbstract
Con la conclusione del Concilio di Basilea nel 1449 si compie la trasformazione del papato in uno Stato assoluto in grado d’inserirsi nel gioco delle potenze italiane. Ne deriva che Venezia, timorosa dell’espansione ottomana e preoccupata di por fine alle lotte del secolo precedente, adotterà una posizione coerente con l’ortodossia cattolica. Ciò diverrà ancora più impellente con l’ampliamento del pubblico di lettori susseguente all’introduzione della stampa.
Un esempio di autocensura preventiva è riscontrabile negli incunaboli che, per tutti gli anni Ottanta del XV secolo, apparvero fra Venezia e Bologna riportando l’adattamento di un antico poema cavalleresco di origini normanne: Buovo d’Antona. La narrazione vi è interpolata da invocazioni estemporanee di chiaro carattere confessionale, intese forse a prevenire le accuse di licenziosità della materia trattata.
Nel momento in cui, intorno al 1507, il filologo Elia Levita intraprende la traduzione del testo in yiddish-taytsh, per poi pubblicarla a stampa a Isny 34 anni dopo, egli si vede costretto ad eliminare od adattare tali passi per rendere la sua opera accettabile a un pubblico israelita.
Scopo dell’articolo è paragonare il Buovo d’Antona veneziano con il Bovo-Bukh di Levita per individuarvi i riferimenti intertestuali di più chiaro carattere confessionale, che possono essere intesi quali forme di autocensura preventiva.
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